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Pensieri e parole

Luoghi comuni, stereotipi, frasi fatte entrano da sempre nei discorsi delle persone e spesso – ahimè – anche nei loro scritti. Sono talvolta il terreno di cui si alimenta la facile comicità, quella cioè che li usa non tanto per metterne in luce l’inconsistenza, o per riderci sopra con ironia, ma per ammiccare a coloro che li ritengono veri e accaparrarsi la loro grassa e ignorante risata.

Si tratta di espressioni che negli ultimi tempi e sempre più spesso vengono analizzate e indicate come inopportune, se non addirittura lesive nei confronti delle categorie cui sono dirette.

E meno male: era ora.

A furia di ripetere che le parole hanno un peso, che sono la forma visibile del pensiero di chi le pronuncia, siamo arrivati a prenderne coscienza davvero, e questo è il primo passo verso un cambiamento reale di abitudini, di atteggiamento e – speriamo – di cultura.

Una questione culturale

Sì, è un problema culturale per questo merita tutta l’attenzione e tutto l’impegno di cui siamo capaci. Ci vorranno tempo e coraggio, ma ce la possiamo fare.

E non illudiamoci di credere che tutti quelli che si dicono solidali alla causa in realtà poi lo siano davvero: non è così automatico. Non è solo una questione di sapere se sia etimologicamente più giusto dire “direttore” o “direttrice” d’orchestra o se quando si affiancano due termini di genere diverso poi l’aggettivo debba concordare al maschile, al femminile o in una forma nuova tutta da inventare. A pronunciarsi non dovrebbe essere soltanto l’Accademia della Crusca.

Il rischio, infatti, è proprio quello di farla passare come mera questione linguistica, relegandola alla sfera del dizionario e in grado di incidere soltanto lì.

E invece è qualcosa di più profondo, che mette in discussione convinzioni dure a morire, sistemi educativi che avallano più o meno inconsciamente le disparità di trattamento tra maschi e femmine, che si adeguano allo stato delle cose, perché si è sempre fatto così, fa parte della tradizione di famiglia.

Comunicazione etica = società giusta

Insistere per sradicare da una lingua le espressioni sessiste e discriminatorie è solo l’inizio di un processo teso a ribaltare una mentalità basata ancora su molti, troppi pregiudizi.

Ci si batte per una comunicazione etica, per ottenere una società giusta: è questa la posta in gioco.

Allora sì, smettiamo di dare della “femminuccia” al bambino che piange facilmente o del “maschiaccio” alla bambina che s’arrampica sugli alberi, ma a questa lotta alle parole fuori luogo affianchiamo anche quella per la parità dei salari e delle opportunità nei luoghi di lavoro, quella che riconosce alle donne il diritto di essere madri e lavoratrici, senza per forza scegliere quale delle due funzioni trascurare, salvo poi sentirsi in colpa per qualsiasi decisione siano costrette a prendere.

Puntiamo il dito senza pietà contro chi, dietro la copertura di una tastiera, si permette di insultare, diffamare e oltraggiare gli altri spacciando le ingiurie per goliardate, ma poi facciamo in modo che venga individuato e punito davvero.

Correggere le parole per avviare un cambiamento

Se si correggono le parole, si deve poi cambiare strada. Per forza.

Chi s’impegna ad agire sull’uso consapevole e rispettoso del linguaggio questo lo sa; ma lo sanno anche quelli che ridicolizzano oppure osteggiano questa campagna, perché il cambiamento non è un obiettivo comune. Ci sono quelli a cui ancora non sta bene.

Il ruolo della scuola

È ancora fresco di stampa l’ultimo libro di Michela Murgia intitolato Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo più sentire. In una delle presentazioni che l’autrice ha tenuto online, tra i tanti spunti di riflessione che ha fornito agli ascoltatori, c’è stato anche quello sui retaggi culturali, intesi proprio come il fardello più pesante di cui dobbiamo disfarci se vogliamo sperare che i rapporti tra le persone (tutte le persone) cambino.

Ha parlato anche di scuola, di libri di testo e dei messaggi che attraverso di loro vengono trasmessi ai bambini: immagini e parole che possono essere determinanti nella battaglia contro le differenze.

In questo processo la scuola ha un ruolo importante che le va riconosciuto, ma non addossato come se fosse un compito soltanto suo.

C’è infatti anche quest’altro rischio: di ritenere che delle parole siano gli altri a doversi occupare, quelli che le insegnano, le studiano, le scrivono.

Di nuovo: non è una questione solo linguistica, ma socio-culturale e, in quanto tale, ci riguarda tutti.

Paola Gaiani

– autrice e responsabile di redazione di Accademia di scrittura –

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

 

 

 

 

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